Sono stati 29 giorni molto intensi qua negli Stati Uniti: ne mancano ancora 3 per completare la missione, ma si può tracciare un bilancio della competizione, al di là dei risultati sportivi in sé che interessano relativamente quando bisogna giudicare il livello di un torneo.
Avendolo vissuto dal di dentro, e in lungo e in largo è proprio il caso di dire viste le dimensioni del paese – anzi, del continente – percorse per coprire l’evento, il mio giudizio verte su tre aspetti: sportivo, organizzativo e ambientale.
Dal punto di vista sportivo il dibattito sarà sempre aperto: serve un altro torneo? C’è lo spazio temporale per giocarlo? Chi è della sua opinione continuerà a conservarla.
Ma a me piace l’idea di un torneo mondiale per club che in un periodo limitato di tempo metta a confronto le squadre dai vari continenti. E non è solo una questione di mio gusto personale: è giusto ed è bello che esista, con cadenza quadriennale, proprio per dare ai diversi movimenti la possibilità di confrontarsi così come le nazionali. Perché mai non deve esserci un vero campione del mondo di club? Adesso c’è.
È però vero che il torneo in questa collocazione temporale è esiziale dal punto di vista fisico. Non che sia una collocazione diversa da quella per nazioni, ma nel caso delle selezioni non è detto che una determinata squadra abbia in tutti i suoi elementi accumulato già così tante partite, mentre con i club è sicuro.
La soluzione ideale? Forse sarebbe giocarlo tra novembre e dicembre, fermando le competizioni come è successo con il Mondiale in Qatar (tenete questa competizione a mente, perché ricorrerà nel discorso). Quella volta il torneo ne beneficiò e anche la salute dei giocatori, ma sappiamo che è una opzione politicamente quasi impossibile.
Nel frattempo, un accorgimento che potrebbe essere adottato è ridurre a 24 squadre: 64 partite sono state davvero troppe, e non c’è stato il tempo per appassionarsi bene durante i gironi. C’è da dire però che il livello di competitività è stato altissimo nella fase a eliminazione diretta con partite quasi sempre emozionanti, e quantomeno accettabile nella fase a gruppi.
Bilancio organizzativo.
Questa è di netto la nota più dolente e delicata. È bene chiarire una premessa: è stato un torneo organizzato in quattro e quattr’otto, e della tipologia di difficoltà massima, esteso su distanze gigantesche. In nemmeno un anno è stato tirato su ed eseguito uno spettacolo che avrebbe necessitato di almeno tre anni per essere condotto a dovere. E appunto, nella situazione più difficile, perché in America le distanze sono inenarrabili, decine di stati differenti, logistica tremenda anche all’interno della stessa città.
Per quelle che erano le premesse, anche troppo bene è andata. Per quelli che sono gli standard di eccellenza FIFA, siamo lontanissimi. Intendiamoci: dall’organizzazione svizzera hanno fatto di tutto per riuscire a far funzionare le cose al meglio, ma ho il sospetto che si siano scontrati con le differenze dell’organizzazione locale americana.
La mia personale esperienza di 4 Mondiali vissuti da giornalista, 5 Europei, 2 Olimpiadi e 2 Copa America mi ha dato gli strumenti per percepire un dialogo difficoltoso tra FIFA e organizzazione degli Stati Uniti. In generale, i tornei FIFA (e UEFA) si distinguono appunto per uno standard di eccellenza organizzativo non prescindibile su quello che gli compete, senza alcuna differenza che si tenga in Sudafrica, o in Brasile, o in Russia o in Qatar. Se il Mondiale qatariota rimane il pinnacolo di ogni eccellenza organizzativa – rimpianto senza distinzioni da chiunque sia stato presente – tuttavia si può pretendere quel livello medio piuttosto alto che la Fifa ha sempre garantito. Stavolta non è stato così. E sicuramente il primo motivo è che siano stati forzati i tempi per disputarlo il prima possibile.
Ma non è solo questo. Se la Fifa si è fatta in quattro per risolvere le problematiche, altrettanta disponibilità non si è trovata dalle organizzazioni locali. E, azzardo io, credo che questo sia risaltato anche nelle interlocuzioni tra organizzazioni locali e Fifa.
Un conflitto di giurisdizione. Per dirla in maniera brutale: “You are in America, sir”. Tutti, Fifa inclusa, non solo sono stati trattati da ospiti, ma proprio da corpo estraneo che deve adattarsi al luogo e le cui difficoltà non sono di competenza delle istituzioni locali. La Fifa dunque si è trovata a non poter aver l’ultima parola e tuttavia a provare a risolvere i problemi. Problemi di ogni tipo. Pensate che per ogni giornalista che si è recato in America è stato richiesto un visto lavorativo di 2 anni, una roba senza senso viste le condizioni (mica lavoriamo per imprese americane, mica prendiamo soldi da americani o paghiamo le tasse là), che richiama a ben altri regimi politici, e lunga e difficile da ottenere. La Fifa con l’aiuto delle ambasciate ha dovuto sfiancarsi per venire incontro alle esigenze, ma immaginate una situazione simile con la mole di accreditati per i Mondiali, nell’ordine delle diverse migliaia.
L’aspetto positivo è che questa poca disponibilità dell’organizzazione locale fornisce una eccezionale occasione di troubleshooting a un anno dal Mondiale: per lo meno si ha una idea più precisa dei problemi, anche se non è detto che qualcosa possa cambiare. Come nel caso delle allerte atmosferiche che provocano l’interruzione delle partite, dovute anche a stadi senza coperture (non nella cultura americana).
L’ultimo aspetto è quello ambientale: molti hanno fatto notare che il pubblico americano non era a conoscenza del Mondiale per Club, ma non può essere certo un torneo nuovo e di club non di nazioni a vincere di colpo il pubblico americano. Per il Mondiale sarà completamente differente: gli americani sentiranno il clima di festa, le differenti etnie saranno coinvolte, in centinaia di migliaia viaggeranno. Stavolta a farlo sono stati quasi solo brasiliani e argentini, e viste le distanze e il fuso è perfettamente comprensibile. Alle partite delle squadre latine il clima è stato grandioso, nelle altre sicuramente godibile ma ovviamente con pathos sportivo relativo.
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