Calcio

Al Khelaifi, meritavi il cerino. Il manicomio non è l’Italia di Gattuso, ma chi la racconta

Il signor Paris Saint-Germain, al secolo Al Khelaifi, ci sarebbe rimasto male – poverino – perché la Juventus non ha mantenuto la promessa di riscattare Kolo Muani dopo averlo tenuto a bagnomaria per settimane e settimane. Ora il colmo dei colmi è che Al Khelaifi parli di rispetto, sarebbe come se un elettricista andasse al lavoro sprovvisto di lampadine. Lo stesso rispetto che Al Khelaifi non ha avuto nei riguardi di Donnarumma, malgrado l’enorme – decisivo- contributo del portiere per la conquista della famigerata e agognata Champions. Come ringraziamento avevano deciso di abbassare l’ingaggio di circa 4 milioni rispetto a quanto prevedesse il contratto in scadenza: da 12 a 8 milioni, una decurtazione assurda nell’anno del trionfo, eppure avrebbero dovuto passare come minimo da 12 a 15, l’aumento in automatico per quelle incredibili prodezze che hanno consentito di mandare a quel paese un enorme tabù. Quindi Al Khelaifi invoca rispetto quando il suo club non ha l’abc di quel sentimento, scaraventa pacchi di milioni dalla finestra eppure parla di “calcio del popolo” senza un perché con una spocchia senza precedenti. La Juventus ha cercato di sbrogliare la pratica in tempi non sospetti, ma presto ha memorizzato che più si avvicinava a una cifra più l’asticella si alzava come se fosse una disputa tra bambini. Poi ha cercato di cambiare la formula, normale reazione di chi non sapeva che a quella cifra si sarebbe attestata la famosa richiesta del PSG. Certo, dispiace per il ragazzo e per la sua fedeltà evidenziata fino all’ultimo: quando Kolo Muani ha capito che stavano giocando una partita patetica di dispetti e dispettucci, ha dovuto virare verso Londra – destinazione Tottenham – per non mandare in rovina una stagione che sarebbe stata impossibile nei rapporti (inesistenti) con Luis Enrique. Alla fine, alla Juve è andata bene così: Openda è un signor acquisto, a prezzi sostenibili, in coppia con Zhegrova alza a dismisura il tasso di imprevedibilità e fantasia negli ultimi 30 metri di Igor Tudor e soci. Ma il signor “calcio del popolo” smetta di piangere e pensi ogni tanto a un criterio di logica e sensibilità che prescinda dal solito concetto legato al vil denaro.

È incredibile come questo Paese sia fatto di figli e figliastri quando bisogna giudicare un commissario tecnico. Se c’è il ct amico, tutto è lecito e dovuto. Mancini può scappare in Arabia dalla notte alla mattina, calpestando un contratto e il minimo – elementare – concetto di sentimento e appartenenza, nessuno gli dice nulla. Spalletti confeziona una delle peggiori frittate nella storia della FIGC, nessuno più lo sopporta, va fuori dall’Europa con un’interpretazione da dilettanti allo sbaraglio, ma siccome è toscano – come chi gli dedica solidarietà – il problema è del movimento sbagliato, dei talenti che non ci sono e non del selezionatore inadeguato. Poi arriva Gattuso e il solone di turno parla di partita da manicomio, robe inaudite, poco da salvare, come se Ringhio dovesse ribaltare un movimento morto e sepolto nell’anima. Se Mancini e Spalletti avessero vinto due partite di fila, segnando dieci gol quando prima nisba, il narratore che ama a prescindere i “figli suoi allenatori” avrebbe distribuito elogi in quantità industriale. Se quelle due partite le vince Gattuso, troviamogli solo i difetti. Dimenticando cosa ha ereditato, da chi ha ereditato, i rischi che avrebbe corso salendo su una nave che sta bruciando da anni dove l’orchestrina ha smesso di suonare.

Gattuso al centro sportivo dell’Atalanta con Scamacca (© Atalanta)

Mi viene da pensare che, se Gattuso riuscisse nell’impresa di portarci al Mondiale, qualcuno sarebbe capace di attribuire qualche merito a Spalletti, Mancini oppure chissà pur di oscurare Ringhio. Israele-Italia è stata una partita da manicomio, ma in qualche caso chi l’ha raccontata – tagliando e cucendo – ha fatto peggio.

Alfredo Pedullà

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