ESCLUSIVA SI Vita da Bolzoni: “Il cambio con Figo, Mou, la chiamata di Conte alla Juve, gli stop. Paradiso? Brividi alla mia prima in panchina”

Francesco Bolzoni ci risponde un po’ provato, dopo una lunga traversata fatta la sera prima: “Siamo rientrati alle 3 di notte da una trasferta: 5 ore e mezza per fare 250 km nel traffico, un incubo. Ma sono proprio felice”.

Sì, perché Bolzo ha trovato subito la sua strada seguendo Giuseppe Sannino all’Fc Paradiso, club del Canton Ticino in Svizzera e questi non sono altro che rischi del suo nuovo mestiere da allenatore: “In molti dopo aver smesso non hanno subito le idee chiare. Mi sento fortunato, perché dopo aver scelto di fare l’allenatore ho capito che è proprio quello in cui voglio canalizzare la mia passione e lo sto facendo”. Lo scorso anno, il Paradiso è arrivato primo in Class League e quest’anno è terzo in Promotion League, la terza serie locale. Tutta scuola per l’ex centrocampista, che in esclusiva per SPORTITALIA si è raccontato ripercorrendo alcuni passi significativi della propria carriera.

Facciamo un passo indietro, partendo dai tuoi esordi con l’Inter: come hai vissuto la crescente notorietà a partire dal campionato vinto nel 2006/07 con la Primavera?

“Andava tutto di corsa, feci fatica a vivermi quei momenti. Dal finire la stagione a giugno con gli Allievi Nazionali mi ritrovai ad agosto con la Primavera e poi catapultato ad ottobre ad allenarmi con la prima squadra. Tre mesi prima pensavo: “Chissà dove finirò”. Al tempo avevano tolto la Berretti, quindi se non venivi scelto per la Primavera potevi andare alla Pro Sesto”.

E invece Mancini ti cambiò la carriera?

“Mancio mi convocava spesso e mi fece esordire in Coppa Italia, poi in Champions League. Con la Lazio nella semifinale d’andata di Coppa Italia si fece male Figo al 20′, vidi Mancini chiamare proprio me: chi se lo aspettava? E poi feci anche la finale di Coppa Italia da titolare…”.

Ti tremarono le gambe?

“No, erano cose naturalissime per me. Non sentivo questa pressione, era tutto normale. Tornavo a casa e con nonchalance dicevo ai miei genitori cose come: “Oggi è andata bene dai”, dopo aver calcato il terreno di San Siro. Quel lato del mio carattere mi ha aiutato in quella fase a gestire una cosa che poteva essere più grande di me che ero un ragazzino, magari in altre situazioni invece mi ha penalizzato”.

In quali?

“Quando ho giocato in squadre dove le pressioni e le motivazioni le dovevo cercare da me quel lato del mio carattere mi ha fatto faticare di più”.

In questo Mancini quanto è stato bravo a toglierti pressioni?

“Mancini nel giovane non guarda tanto la qualità tecnica o fisica, quanto quella mentale. Hai personalità? Devi giocare in prima squadra come se fossi all’oratorio. Per lui ero un giocatore che non sentiva la pressione, questa era la qualità migliore dal suo punto di vista. Mi diceva: ‘In Primavera ti senti il più forte di tutti, in prima squadra devi fare la stessa cosa’. Poi mi sgridava, era esigente, ma la stessa cosa la faceva anche con l’Ibrahimovic di turno. Questo ti caricava. Mancio con i giovani è il migliore, senza di lui non so se sarei stato il Bolzoni di cui tanti si ricordano, nonostante sia rimasto poco lì. Gli devo tanto”.

L’hai fatto tuo questo modo di gestire dei giovani?

“Sì, ci tengo tanto al colloquio con i ragazzi, per capire di cosa hanno bisogno in quel momento, se il bastone o la carota. Trattando tutti allo stesso modo, facendo sentire tutti sullo stesso piano. Voglio fare mia questa cosa per quando sarò allenatore”.

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Roberto Mancini (LaPresse) – sportitalia.it

Con Mourinho sei stato più ai margini, ma è lui che ti ha fatto fare l’esordio in A.

“Avevo concluso un anno nel quale mi allenavo con la prima squadra e poi giocavo con la Primavera. Mi ero convinto che poi sarei andato via, per giocare. Alla festa di fine anno della Primavera però mi vidi arrivare Mourinho che mi disse che mi voleva in prima squadra. Mi sono fatto proprio ammaliare, avevo 19 anni”.

E poi?

“A gennaio 2008 volevo andare via a tutti i costi (ride, n.d.r.). José mi chiama nel suo ufficio avendo sentito di qualche rumors di squadre di categorie inferiori che mi volevano. “Sì mister, non vorrei perdere il treno dell’Olimpiade…” – gli confermai. E lui: “Se tu vai in squadra di mer*a, con campi di mer*a, diventi un giocatore di mer*a””.

E sei rimasto ancora.

“Ovvio, che gli dovevo dire (ride, n.d.r.)? Poi oltre a José, c’era Rui Farias, il suo fidato collaboratore, che stravedeva per me e soprattutto Lele Oriali che spingeva davvero affinché io avessi una chance. Nel momento in cui cominciavo a scalare le gerarchie mi sono fatto male al ginocchio: non eravamo sicuri di fare l’operazione, aspettammo dunque fine anno. E lì arriviamo all’esordio”.

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José Mourinho (LaPresse) – sportitalia.it

Con il Cagliari, finalmente.

“Giocai con il ginocchio mezzo andato. Il giorno dopo la partita mi sono operato. Ecco perché è stata una emozione a metà, diciamo che le prime in Champions e Coppa Italia le ricordo con più affetto”.

Arriva la separazione dall’Inter, nell’ambito dell’affare che porta Milito e Motta a Milano. Che ricordi di quell’estate?

“A Genova ho fatto il ritiro con Gasperini, non una passeggiata diciamo! Io sapevo che lì avrei trovato poco spazio, così andai al Frosinone. Nei primi sei mesi non sapevo giocare a calcio, ma nel girone di ritorno sembravo un trattore. A fine anno arriva la mia prima sliding doors della carriera, che ha come giudice Migjen Basha”.

In che senso?

“Se lui avesse deciso di andare al Siena, io sarei andato all’Atalanta, e viceversa. Ha deciso per la Dea, così mi sono ritrovato il giorno dopo al Siena”.

Ti è andata bene, visto che hai incrociato Conte che ti ha tirato fuori il meglio, no?

“Assolutamente. Abbiamo ottenuto la promozione, Antonio mi ha plasmato nel tipo di giocatore che sarei voluto essere nella mia carriera e che sono riuscito ad essere solo a tratti. E’ stato importante per me: con i suoi modi bruschi mi coccolava. Puntava su di me, penso che rivedesse qualcosa di sé, in me, mi diceva che per lui ero al 50% di quello che potevo essere, che avrei fatto una grande carriera”.

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Antonio Conte – Sportitalia.it (Foto LaPresse)

 

Esagerava nel dire che eri al 50%?

“A livello fisico ero al 100%, una macchina, ma probabilmente sarei potuto migliorare in quegli aspetti che un centrocampista perfeziona fra i 22 ed i 28 anni. Il cervello si adatta a situazioni che prima raggiungevi con il fisico: hai la stessa forza, ma la tua testa lavora al doppio sulle letture. Aveva ragione”.

Ti sei dispiaciuto a vedere Conte andare alla Juve?

“Potevo andare con lui: mi disse che gli sarebbe piaciuto portarmi a Torino, ma poi non si fece la cosa. Andrea Rossi, che era arrivato dai bianconeri, mi prese in giro quando Sannino mi lasciò fuori squadra: “Bolzo, potevi essere alla Juve invece sei qui, non convocato”. Non era il mio momento”.

Insomma con Sannino non andò subito bene?

“All’inizio ho avuto un rapporto non facile con lui. Io avevo un po’ di presunzione dopo una stagione di vittorie e premi, Nazionale Under 21 e quant’altro. Non fu facile, perché lui ancora oggi ripete che vuole giocatori intelligenti. Se tu non sei disposto a capire quello che lui vuole si fa dura. Poi ebbi tantissimi problemi fisici, così ho bruciato la mia prima opportunità in A”.

Non fu facile, ma Sannino ti ha colpito se poi sei tornato da lui da allenatore in seconda.

“Con il senno di poi mi sono reso conto di quante cose mi fossero rimaste dentro sia da calciatore che da allenatore. In altre annate dove ero più contento come calciatore, magari non avevo immagazzinato nulla, con lui invece ero cresciuto da tanti punti di vista e fu questo a colpirmi di lui”.

Il secondo anno in A non andò meglio.

“Non è andato benissimo, no. Sai come sono i calciatori, quando non giocano piantano un casino, infatti dopo quell’annata volevo andarmene (ride, n.d.r.). Sono rimasto quasi da scontento, ma con Cosmi giocavo. Poi arrivò Iachini e mi trovai a non giocare mai, ma proprio mai, nemmeno mi scaldavo”.

Al Palermo invece sei rinato con Gattuso e… Iachini!

“In estate mi chiamarono vari direttori sportivi. Ma un giorno sento la voce di Gattuso dall’altra parte del telefono che mi diceva: “Oh Francesco, sono Rino. Cosa fai, fai il fenomeno in A oppure vieni in B al Palermo e vinciamo il campionato?”. Impossibile dire di no, firmai il giorno dopo. Per Rino ero come un figlio, mi metteva in imbarazzo con i complimenti che mi faceva. Peccato che poi sia stato esonerato”.

Ironia della sorte: con Iachini vi eravate chiariti?

“No, non ce ne fu bisogno eravamo entrambi professionisti. Ricordo Gattuso che ad una cena d’addio disse: “Un applauso per Bolzo che con me giocava senza una gamba e ora non farà più un minuto”. Che risate. Invece poi è andato tutto bene con il mister, perché ero proprio rinato in rosanero, sono stato quello che ha fatto più minuti di tutta la rosa. Forse la miglior stagione della mia carriera”.

Il tuo ritorno in A come andò?

“Ero partito con un brutto infortunio alla caviglia che mi trascinai avanti tutto l’anno. E’ stata comunque una stagione migliore a quella fatta in A con il Siena, perché ero cresciuto. Venne anche Conte, con Oriali, a vedere l’allenamento del Palermo, dandomi la speranza di andare in Nazionale. Fu vitale per me questo stimolo quando mi ruppi il tendine d’Achille”.

Come ne sei uscito?

“Ho avuto momenti duri a livello familiare, arrivo a dirti di depressione. Ma non avevo alcun dubbio: non è che ci fosse altro di contemplato, io dovevo riprendermi e fare il calciatore. Un anno dopo sono rientrato, non sono più stato quello di prima, ma ho comunque fatto altre 200 partite. Ed ho imparato tanto. Il profilo umano vale più di tutto il resto”.

Un po’ di prestiti, negli anni successivi.

“Da quando mi sono rotto il tendine, ho fatto 14 presenze in due anni, tutte da 10-15 minuti. Sono andato allo Spezia davvero da giocatore… finito. Mi hanno preso all’ultimo minuto entrando in uno scambio. Con Gallo invece faccio 32 partite. L’anno dopo però il ds non mi vedeva”.

E fai una scelta non da tutti: andare in D, dalla B.

“Mi ha chiamato il Bari, che voleva prendere Brienza, Di Cesare, Floriano. Ci siamo sentiti fra di noi 4: “Andiamo!”. Una scelta che mi ha fatto capire tanto di quello che c’è nelle serie minori, di cosa il calcio muove, anche per ragazzi che in quella categoria magari lavoravano e giocavano, anche se non era il caso dei giocatori del Bari. Altri che per sfortuna non erano arrivati dove volevano, senza perdere la passione per il calcio”.

Delle tre promozioni, a quale sei rimasto più legato?

“A tutte, ma quella con il Palermo è stata unica. Perché eravamo partiti male, quando era arrivato Iachini, eravamo tredicesimi. Con la stessa squadra l’anno successivo arrivammo undicesimi in A, per dire. C’era l’Empoli di Sarri da raggiungere, lo abbiamo rincorso, superato, chiudendo a +14. Difesa da record, un gruppo affiatato. Perinetti è bravo in queste cose, aveva amalgamato una squadra pazzesca”.

Altra scelta non banale: la Svizzera. Cosa ti ha spinto lì?

“La stessa cosa di Spezia, ma a Bari. Il direttore non mi vedeva per l’anno successivo, in C. A Lecco avevo fatto 40 partite, sempre nella stessa categoria… Dopo essere stato 6 mesi fuori, mi chiama Padalino dicendomi che avevano bisogno di un paio di fuori quota al Lugano Under 21. Non conoscevo nulla della Svizzera, ma dissi subito di sì. In 15 partite avevano fatto 7 punti, arrivai lì la prima settimana trovando un gruppo di 10 ragazzi. 10, capisci? Ma mi piaceva la sfida. 20 punti nel girone di ritorno e ci siamo salvati”.

Poi il tempo di un ultimo trasferimento.

“Al Rapperswil-Jona feci 6 mesi, ma il ginocchio non reggeva più, così ho smesso a dicembre. A gennaio mi chiama Grigoletto dicendomi che Sannino aveva bisogno di una mano. Iniziai facendo 2 giorni a settimana, poi 3, poi divenne sempre. Non vedevo l’ora di tornare al campo. I ragazzi hanno vinto il campionato e da quest’anno sono entrato a far parte ufficialmente dello staff”.

Francesco Bolzoni

Cosa hai provato alla tua prima in panchina, quando Sannino è stato squalificato?

“Una sensazione al contempo bellissima e stranissima. Solitamente io sto dietro al mister, appoggiato alla panchina. Mi ritrovo invece al limite dell’area tecnica, senza niente alle mie spalle, con i ragazzi che mi guardavano. Mi sono sentito un po’ strano per qualche secondo, poi sono entrato in trance agonistica, capendo che questa è la mia strada”.

Prossimi obiettivi?

“Intanto va finita questa stagione che è ancora lunga. Mi piacerebbe continuare qui, c’è un bel progetto, con Sannino imparo ogni giorno come andando ad un corso. E’ una vita che fa questo mestiere, vorrei rimanere con lui e continuare a crescere. Quando farò il passo diventando primo allenatore, vorrò essere più pronto possibile”.

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