La Juve è un finto problema. Il calcio esca dall’ipocrisia. Popolare non fa rima con campanile

Le origini delle contrapposizioni sportive che raggiungono punte di autentico odio nel calcio sono raccontate dai grandi numeri e dai piccoli feudi medioevali. Il diciannovesimo turno di campionato ha registrato la presenza record di circa sette milioni di abbonati sulla piattaforma Dazn con ben due partite sopra il milione di utenti. Juventus-Atalanta (partita record con 1,6 milioni di abbonati) e Lazio-Milan (con 1,4 milioni). Ciò significa che, alla faccia delle minacce di disdette contro tv e media che si sono occupati, a dire di alcuni sostenitori bianconeri, in modo schierato del caso plusvalenze Juve, il pubblico non solo non è calato, ma persino aumentato se spalmato su quattro giorni. Il micro fenomeno racconta che le minacce social non hanno alcuna validità e sortiscono l’effetto opposto, ma il macro problema, che esiste realmente, riguarda ciò che si intende per “popolare” nel nostro calcio.

Mai nella storia degli scudetti vinti c’era stato un così largo dominio, più di venti anni, delle tre squadre maggiori: Juve, Milan e Inter. Il Napoli potrebbe interrompere questa continuità, ma rappresenterebbe comunque una splendida anomalia. Il calcio veramente popolare resta quello di Juve, Milan e Inter per un semplice fattore numerico: i bacini di tifosi di queste tre squadre sono enormemente superiori a quelli delle altre e rappresentano con la loro collocazione geografica lungo tutto lo stivale una realtà storica difficile da sradicare o da paragonare a realtà locali. Grazie alle tre grandi squadre di vertice esistono tre giornali sportivi, innumerevoli programmi televisivi e radiofonici e costellazioni di siti che devono le loro fortune a questi tre club e/o alla contrapposizione ad essi. Ma senza i tre grandi club non ci sarebbe nemmeno la contrapposizione. Nel bene e nel male. Persino i periodi più critici per qualcuna delle grandi squadre, come questo, attraggono ascoltatori, lettori e utenti incuriositi dalle svolte, dalle soluzioni, dalle difese e dagli attacchi. C’è sempre fame di sapere come andrà a finire. Appare quindi evidente come la competitività fra le tre grandi squadre che solitamente si avvicendano in testa alla classifica e le altre tre più valide (Napoli, Roma e Lazio) assuma connotazioni assolutamente in antitesi con la realtà del “campanile” che si vuole retoricamente raccontare. Nel tempo ci sono state anche altre società in grado di misurarsi con le prime della classe. Il Torino, il Cagliari, la Fiorentina, la Samp e persino in Verona. Ma sono stati bagliori seguiti a decadenza come nel caso del Torino che si è adagiata su profili sempre più bassi fra l’indifferenza generale. Juve, Milan e Inter non possono permetterselo, obbligate ed essere competitive. Si capisce benissimo che il calcio proceda su velocità, valori e storicità diverse. E torniamo alla questione del “campanile” che diventa del tutto pretestuosa perché non ha alcun senso parlare di “campanile” per squadre seguite in Puglia, in Calabria, in Sicilia, in Emilia, in Veneto. Come non ha alcun senso dall’altra parte sollevare la bandierina della squadra simbolo della propria città quale “riscatto” e “appartenenza” contro il potere delle “élite”. Ma quale élite se parliamo di sette-otto-undici milioni di tifosi che rappresentano il cuore dell’intero movimento calcistico nazionale? Il vero calcio del popolo. Alla élite appartiene invece chi considera il club un proprio bene, un orticello o un feudo. Da coltivare come un bene di famiglia se continuerà a dare frutti e/o da abbandonare se dovesse risultare infruttuoso. Nel mezzo ci sono i tifosi. Tutti insieme appassionatamente a girare sulla stessa giostra. Chi è sul cavallino, chi sulla macchinina, chi sull’aeroplanino sparandosi addosso a salve. Prossimo giro, prossima corsa. Nessuno si sognerebbe di scendere.

Paolo De Paola

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