Nel firmamento dello sport italiano poche figure hanno rappresentato un’istituzione come Federica Pellegrini, capace di incarnare la passione, la determinazione e l’eccellenza.
Con una carriera stellare costellata di record mondiali, medaglie olimpiche e primati europei, Pellegrini non è soltanto una campionessa: è una narratrice autorevole della propria storia, capace di trasformare i trionfi in strumenti di crescita per gli altri. Oggi, lontano dalle competizioni ad altissimo livello, la “Divina” manifesta la sua visione attraverso iniziative concrete come la Fede Academy, nata con il marito Matteo Giunta, e la sua presenza nel CIO. Per la Pellegrini, l’esperienza in vasca non si è mai limitata alla prestazione fisica: è una palestra di vita. Sport a 360 gradi – lo definisce. Alla Fede Academy, dove cura anche l’aspetto mentale dei bambini – sottolineando l’importanza di una tutor-psicologa – sta trasferendo valori di sacrificio, spirito di squadra e consapevolezza emotiva.

Regole semplici, come il divieto di smartphone nelle aree comuni, servono a far comprendere ai giovani che “anche lo sport richiede rigore”. E queste radici mentali, confessa Pellegrini, erano fondamentali persino quando, sedicenne, conquistò la prima medaglia olimpica: accanto ai coach, c’era anche una figura professionale a supporto della sua crescita emotiva. Un lusso, ricorda, che oggi sembra ancora un tabù per molti atleti. Ma per Federica Pellegrini c’è anche un motivo di sofferenza che, ancora oggi, sembra molto lontana dal dissiparsi.
Pellegrini si batte per l’uguaglianza: “Servono paletti”
“Secondo me deve essere proprio lo sport a dettare dei paletti, perché a volte ci troviamo con grandissime imprese al femminile che vengono rilegate ancora alla ventesima pagina dei giornali e non si meritano neanche la prima: quella è una cosa che ancora oggi mi fa male”. Con questa riflessione, Federica Pellegrini torna al cuore di un problema che infiamma il dibattito sullo sport femminile: il riconoscimento, in termini di visibilità, ancora inferiore rispetto ai colleghi maschi. Il suo ragionamento si fonda su una duplice evidenza: da un lato, i numeri bianchi delle discipline miste nel nuoto dimostrano che, quando le gare si alternano sullo stesso palco e con identica comunicazione, le differenze scompaiono; dall’altro lato, in altri sport, le imprese femminili restano relegati a titoli marginali. È un problema di sistema: perché un’impresa eccezionale, se non celebrata appropriatamente, rischia di restare un evento isolato, privo di risonanza.

Grazie all’esperienza in CIO e alla presenza nei media, Pellegrini si fa portavoce di una richiesta concreta: promuovere una narrazione equa tra uomini e donne, nelle gare, nella programmazione televisiva e nell’editoria. Perché, come osserva la campionessa, lo sport può e deve dettare le regole della copertura mediatica. E soprattutto, deve restituire giustizia alle protagoniste che sfidano i propri limiti. Il tema non è solo retorico: passa attraverso le consapevolezze delle nuove generazioni, già ipersensibili grazie ai social, e nelle rigide regole della Fede Academy.






