La vittoria a Vienna è già finita nel dimenticatoio, perché la polemica sulla “italianità” di Sinner si fa sempre più accesa: la rivelazione è incredibile.
Non è solo il tennis, ma tutto ciò che gli ruota attorno, ad aver reso Jannik Sinner il personaggio più discusso dello sport italiano. Negli ultimi mesi, il campione altoatesino si è ritrovato al centro di un vortice mediatico che ha travalicato i confini dello sport. La decisione di non rispondere alla convocazione per la Coppa Davis 2025, motivata con la necessità di ricaricare le energie e preparare al meglio la stagione 2026, ha scatenato un’ondata di critiche.
Per alcuni, quella di Sinner è stata una scelta comprensibile, dettata dal calendario serrato e dagli impegni internazionali; per altri, invece, un tradimento del senso di appartenenza alla maglia azzurra. La partecipazione al torneo esibizione Six Kings Slam di Riad, dal montepremi di sei milioni di dollari, e l’annuncio di un match-show in Corea del Sud con Carlos Alcaraz hanno ulteriormente acceso gli animi, alimentando l’idea che il tennista privilegi i guadagni ai colori nazionali.

In questo clima, si è inserita la polemica più virale: quella con Bruno Vespa, che sui social aveva scritto che “Sinner non parla italiano, vive a Montecarlo e si rifiuta di giocare per la nazionale”. Parole che hanno diviso il Paese, tra chi ha difeso il diritto di Sinner a gestire la propria carriera e chi lo ha accusato di scarsa italianità. Vespa, poi travolto dalle critiche, ha corretto il tiro ma la miccia era ormai accesa. Da Fiorello a Adriano Panatta, passando per decine di commentatori sportivi, il dibattito si è trasformato in una riflessione più ampia sull’identità, sul senso di rappresentanza e sul rapporto tra successo e appartenenza.
Sinner, da parte sua, ha scelto il silenzio e il campo: continua a vincere e a scalare il ranking mondiale, incurante del rumore esterno. Ma la tempesta attorno a lui resta un tema che va oltre il tennis e tocca la percezione stessa di cosa significhi “essere italiani” nel mondo globale dello sport.
Sinner e le tasse, residenza a Monaco: tutto perfettamente legale
Dietro le polemiche sul “non paga le tasse in Italia” si nasconde una realtà molto più complessa – e del tutto legittima. Jannik Sinner ha la propria residenza nel Principato di Monaco dal 2020. Una scelta che lui stesso ha sempre definito “professionale”: a Monaco vivono e si allenano molti dei migliori tennisti al mondo, tra cui Matteo Berrettini, Lorenzo Musetti e, fino a poco tempo fa, Novak Djokovic. Il Principato offre strutture sportive d’élite, un clima ideale e, sì, un sistema fiscale particolarmente vantaggioso, ma pienamente riconosciuto a livello internazionale. A Monaco, infatti, non esistono imposte dirette sui redditi personali. Si paga soltanto l’IVA (al 20%) e, in alcuni casi, l’imposta di successione per i trasferimenti non diretti. Il sistema, dunque, consente agli sportivi residenti di trattenere gran parte dei guadagni provenienti da premi e sponsorizzazioni. Tuttavia, non si tratta di un paradiso fiscale nel senso classico del termine: dal 2015 Monaco ha firmato con l’Italia un accordo per lo scambio automatico di informazioni finanziarie, e nel 2025 ha aderito al protocollo europeo che garantisce la trasparenza dei conti bancari.

Per ottenere la residenza monegasca, Sinner ha dovuto dimostrare disponibilità economiche significative – solitamente almeno 500mila euro di deposito bancario – e un’effettiva presenza fisica nel Paese per più di 183 giorni l’anno. Nel 2025, secondo Forbes e i dati ATP, il tennista ha guadagnato oltre 18,9 milioni di dollari in premi, più 27 milioni dalgi sponsor (di cui 15 milioni dal contratto decennale con Nike). A questi si aggiungono i ricavi delle società che gestiscono i suoi diritti d’immagine, come la holding Foxera e la nuova Wooly Lemon, entrambe con sede a Monaco. Insomma, Jannik Sinner non evade, non aggira, non froda: applica le regole di uno Stato in cui risiede regolarmente e in cui paga ciò che deve pagare. Le sue scelte fiscali possono far discutere sul piano morale o patriottico, ma sono perfettamente conformi alla legge. E, in fondo, è proprio questo il nodo del dibattito: quanto può pesare la libertà personale di un campione, quando a giudicarlo non è più il campo, ma il Paese intero?






