Tadej Pogacar ha appena conquistato il suo quarto Tour de France, ma dietro la vittoria si nasconde qualcosa che preoccupa gli appassionati.
Vincere un Tour de France è un’impresa che segna una carriera. Vincerne quattro, come ha appena fatto Tadej Pogacar, significa entrare di diritto nella leggenda del ciclismo. Eppure, proprio ora che il campione sloveno sembra aver raggiunto la piena maturità agonistica, qualcosa in lui appare diverso.

Non è una questione di gambe o di risultati, perché lì i numeri parlano chiaro: dominio assoluto, distacchi netti, controllo totale delle corse. Il cambiamento è nello sguardo, nei gesti, nelle parole che non dice.
Putiferio Pogacar, cosa sta succedendo
Dalla fine dell’ultimo Tour, Pogacar non sembra più lo stesso. A soli 26 anni, un’età in cui la maggior parte dei corridori inizia appena a entrare nel proprio picco, lui sembra già contare gli anni che lo separano dal ritiro. È una sensazione strana, quasi surreale, per un atleta che dovrebbe avere ancora fame e curiosità da vendere.
Gli occhi gioiosi e appassionati che lo avevano reso un’icona non solo per le vittorie, ma anche per la spontaneità, avevano iniziato a velarsi già in primavera. Come se la routine delle corse, gli allenamenti e persino i successi fossero diventati un’abitudine priva di emozione. In estate, poi, quella luce si è affievolita ancora di più: mentre dominava le tappe del Tour de France 2025, Pogacar dava l’impressione di guardarsi attorno e non vedere altro che vuoto, distanza, mancanza di stimoli veri.

Sul podio, tappa dopo tappa, il suo volto aveva perso colore. Il sorriso, un tempo ampio e contagioso, si era ristretto in una smorfia cortese, quasi un gesto di cortesia per il pubblico e i fotografi. Il campione, insomma, sembra non poterne più. Non della fatica, non della bici, ma della solitudine che comporta essere troppo più forte di tutti gli altri.
E questo è un problema che non riguarda solo lui, ma l’intero movimento ciclistico. Perché uno sport vive e cresce grazie alle rivalità, alle sfide che si decidono all’ultima curva, agli avversari capaci di costringere i campioni a scavare ancora più a fondo. Pogacar, invece, si trova oggi a correre in un contesto dove la sua superiorità è così netta da togliere pathos alla competizione.
Forse, senza ombra di dubbio, il Tour 2025 verrà ricordato per l’ennesimo trionfo dello sloveno. Ma sarà anche ricordato per quell’ombra nello sguardo, per quella sensazione di distacco che i tifosi più attenti hanno notato. Tadej Pogacar avrebbe bisogno di un avversario capace di prenderlo a schiaffoni nel senso sportivo del termine. Gli allungherebbe la carriera, lo farebbe sentire senz’altro più vivo.
Ma il ciclismo è questo è fatica, sudore, sacrificio, solitudine come nella cacnzone di Enrico Ruggeri. Con cento e più chilometri alle spalle e cento da fare quando, ormai, sei sicuro che non arriva più nessuno dei tuoi. Per noi appassionati di ciclismo c’è solo da sperare che, quella di Pogacar, sia una debacle momentanea una crisi di fame e che presto lui possa tornare a pensare: “Io non mi lascio andare. Non ci pensare; non mi staccherò”.






