Carlos Alcaraz, sempre più laciato dopo la vittoria agli US Open, sembra non volersi fermare più. Per Sinner intanto arrivano parole umilianti.
Il giovane spagnolo, che ormai sembra lanciato verso una carriera destinata a segnare un’epoca, ha mostrato a New York non soltanto la sua forza tecnica e fisica, ma soprattutto quella leggerezza che gli consente di giocare i momenti decisivi con un sorriso sulle labbra.

Sinner, al contrario, si è ritrovato ancora una volta costretto a inseguire un rivale che appare capace di trasformare la tensione in spettacolo. La finale degli US Open ha ribadito senza ombra di dubbio come il confronto tra i due non sia più soltanto una sfida sportiva, ma un vero e proprio dualismo che sta dividendo opinioni e analisi.
Alcaraz stavolta sembra spiccare il volo
A mettere altra carne al fuoco è arrivata Lucia Taboada sulle colonne del País, con riflessioni che hanno fatto molto discutere. La giornalista spagnola ha provato ad allargare lo sguardo, partendo da una considerazione più ampia: nello sport la perfezione non esiste, o meglio, non può essere raggiunta in senso assoluto. Secondo lei, tutto dipende da ciò che ci viene donato alla nascita, il talento naturale, e dalle opportunità che la vita ci offre per scoprirlo e coltivarlo.
Parole che, prese così, possono sembrare una semplice riflessione filosofica. Però, nel momento in cui vengono applicate al confronto tra Alcaraz e Sinner, assumono un peso ben diverso. «Essendo la perfezione qualcosa di così difficile da raggiungere, così difficile da accettare, se c’è un luogo in cui è possibile intravederla, è nello sport», scrive Taboada. E ancora, aggiunge: «Se c’è qualcosa di simile alla perfezione, Alcaraz l’ha raggiunto nella finale degli US Open. Il tennista sa come convivere con la perfezione perché non sembra ossessionarsene. Perché, nello sport, la ricerca della perfezione può diventare un paradosso insormontabile».

Un elogio, senza dubbio, che eleva Alcaraz a modello di talento puro e spontaneo. Ma allo stesso tempo una sorta di frecciatina, quasi inevitabile, a Sinner. Perché se da un lato lo spagnolo sembra incarnare l’idea del genio che si diverte e gioca senza peso sulle spalle, dall’altro l’italiano appare l’esatto opposto: metodico, determinato, ossessionato dal miglioramento continuo, come se la perfezione fosse un obiettivo da raggiungere a tutti i costi.
E così, tra le righe, il paragone diventa impietoso. Alcaraz viene dipinto come colui che vive la perfezione senza esserne schiavo, mentre Sinner rischia di apparire prigioniero della sua stessa disciplina. Non è la prima volta che Jannik si trova a dover fronteggiare giudizi del genere, che mettono in discussione non tanto il suo talento, quanto la sua capacità di trasformarlo in qualcosa di più naturale, di più “leggero”.
In fondo, la storia dello sport ci insegna che ogni grande dualismo è fatto di contrasti di stile e di personalità. Senza ombra di dubbio, Alcaraz e Sinner incarnano due visioni opposte del tennis, destinate ad alimentare discussioni per anni. Ma quello che è certo è che la finale di New York, e le parole di Taboada, hanno acceso un dibattito che va ben oltre il punteggio: riguarda il senso stesso della perfezione e il modo in cui ogni atleta sceglie di inseguirla o di conviverci.






