
Maurizio Sarri ha concesso in esclusiva a Sportitalia un’intervista con Alfredo Pedullà.
Il clinic di Maurizio Sarri volge al termine. Come nasce questa iniziativa?
“È un modo per dare una mano alla squadra del mio paese, quella dove sono cresciuto calcisticamente: ho fatto tutte le giovanili lì, e ci ho giocato per cinque o sei stagioni anche in prima squadra. Mettere a disposizione dei ragazzi più giovani la mia esperienza, rivedermi nei loro occhi all’inizio del loro percorso, mi dà una soddisfazione autentica. Lo faccio con piacere, perché mi gratifica.”
Come si è evoluta la metodologia di lavoro di Maurizio Sarri e, più in generale, quella dell’allenatore moderno?
“Tutto parte dalle idee, ma il percorso non è mai lineare: si avanza, a volte si torna indietro. Oggi, pensare di avere 25 giocatori perfettamente in linea con il proprio stile di gioco è quasi utopia. Le rose non si possono più rivoluzionare ogni anno, per motivi economici. Serve quindi la capacità di adattarsi, di modellare le proprie idee in base alle caratteristiche della squadra. Mi fa sorridere chi si stupisce che le mie squadre non giochino sempre come il mio Napoli: ma è ovvio che non possano farlo. Quel Napoli aveva qualità tecniche particolari, difficili da replicare altrove. Mi sarebbe piaciuto, perché quello era il calcio che mi dava più gusto, ma se alleno Immobile non posso chiedergli di fare Mertens. Sono due giocatori diversi. Alla Lazio, la mia esperienza non si può ridurre agli ultimi tre mesi: abbiamo centrato un secondo posto, il miglior piazzamento del club negli ultimi 25 anni. Abbiamo affrontato un ottavo di finale con il Bayern Monaco. Per me resta un’esperienza positiva”.
Quel colpo di testa di Immobile… avrebbe potuto cambiare la partita contro il Bayern?
“Sicuramente. Dopo quell’occasione fallita, il Bayern ha preso fiducia. All’inizio erano un po’ nervosi, il clima intorno a loro non era dei migliori. La prima mezz’ora è stata particolare, i tifosi non li sostenevano davvero. Passare in vantaggio in quel momento avrebbe potuto cambiare l’inerzia. Ma alla fine, bisogna dirlo: erano più forti di noi”.
Hai parlato con De Ligt, che conosci bene. Cosa ti ha detto?
“Mi ha confidato che se fossimo riusciti ad andare avanti noi, avremmo potuto mettere la partita su un binario favorevole. In quel momento il Bayern era fragile, lo spirito della squadra non era dei più alti”.
È l’estate dei ritorni. Perché hai scelto di tornare alla Lazio?
“La verità? Per amore. Razionalmente, non è forse la scelta più comoda. Ma la Lazio mi ha conquistato. Amo la società, la tifoseria. È stata una decisione presa col cuore. Ci ho pensato molto? A dirla tutta, no. Quest’anno – a differenza dello scorso – c’erano altre opzioni, altri interessamenti. E questo mi ha fatto piacere. Ma la decisione l’ho presa in 48 ore”.
Oltre all’amore, cosa ti aspetti da questo ritorno?
“Mi auguro un piccolo adeguamento della rosa, qualcosa che la renda più vicina al mio modo di intendere il calcio. Ma sono consapevole delle difficoltà e della situazione. Qualche innesto ci sarà, ma niente rivoluzioni”.
Si è parlato molto del tuo addio. Dov’è la verità?
“La verità è semplice: quando ti trovi ad affrontare problemi familiari seri, legati a persone a cui sei profondamente legato, perdi la lucidità per gestire anche le normali pressioni del lavoro. In quel momento non avevo la testa per affrontare certe situazioni. Niente di clamoroso, intendiamoci, sono cose che mi erano già capitate decine di volte… ma allora avevo la forza per reggerle. Stavolta no”.
In quell’estate si è parlato di diverse offerte dall’estero. Hai scelto di fermarti per riflettere?
“Sì, avevo vissuto eventi familiari forti, lutti che ti tolgono l’equilibrio. Fermarmi è stato necessario per ritrovare lucidità. Detto questo, anche quest’anno ho avuto proposte concrete: una trattativa importante con un club saudita. Avrei guadagnato in un solo mese quello che prendo in un anno alla Lazio. Ma già l’anno scorso ho deciso che avrei seguito il cuore, non il portafoglio”.
Non sono il tuo commercialista… ma parliamo di cifre vicine ai 30 milioni?
“Non mi interessa. Ho sempre fatto questo mestiere per passione, e tutto quello che è arrivato, anche economicamente, è stata una conseguenza di quella passione. Non voglio iniziare ora a farlo per soldi”.
A Spalletti l’Al Nassr ha offerto 18 milioni. Tu cosa avresti fatto?
“Quello che ho fatto”.
Quindi no?
“No. (Sorride, ndr)”.
Perché non è calcio?
“Non lo so, sinceramente. È qualcosa che, solo a pensarci, non mi smuove nulla dentro. Non mi stimola, non mi emoziona. Mi sarebbe difficile lavorare così”.
Ma stanno portando laggiù molti campioni…
“E allora porteranno i campioni lì, e io continuerò ad allenare quelli meno forti qui. A me dà più gusto così”.
Che momento vive il calcio italiano? Siamo al punto più basso?
“Qui parliamo di Nazionale. Che certo è uno specchio, una parte del movimento. Però a livello di club, in Europa, ci stiamo difendendo bene: eravamo secondi nel ranking UEFA l’anno scorso, quest’anno terzi. Quindi una crescita c’è. La Nazionale, invece, ha problematiche diverse, più profonde. Sarebbe davvero grave mancare anche al prossimo Mondiale: con la storia che abbiamo, sarebbe la terza assenza consecutiva. Inaudito”.
Ma siamo passati da cento a zero. Ti sei dato una spiegazione?
“Ognuno deve prendersi la propria parte di responsabilità. Tre allenatori sono andati in difficoltà nelle qualificazioni ai Mondiali: è difficile pensare che il problema sia solo loro. C’è qualcosa di più grande che non funziona. Tutte le componenti devono guardarsi allo specchio, dai tecnici che formano i ragazzini fino a noi allenatori di lungo corso”.
Un consiglio per Rino Gattuso?
“L’unica cosa che mi sento di dirgli è: resta te stesso, sempre”.
Questo può bastare in un sistema così complicato?
“Penso che per un allenatore essere se stesso sia la base. La coerenza, nel tempo, trasmette qualcosa. Rino ha un carattere che a me piace, diretto, genuino. Gli auguro di rimanere sempre così, con le vittorie e con le sconfitte. Speriamo resti Ringhio”.
C’è una cosa che resterà per sempre nel segno di un allenatore come te?
“Penso che le mie squadre, per ordine e compattezza, siano facilmente riconoscibili. Se guardi una partita, capisci subito che quella è una squadra di Sarri. Questa identità tattica credo sia una delle mie firme. Poi si può discutere su quanto sia spettacolare una squadra rispetto a un’altra, ma per me molto dipende dalle caratteristiche dei giocatori, in particolare degli attaccanti, e da quanto riesci a farli rendere nelle cose in cui sono più bravi”.
Che lettura dai al fallimento del progetto Giuntoli-Motta alla Juve? Ricordiamo che l’ultimo scudetto l’hai vinto proprio tu…
“Qualche mese dopo il mio arrivo dissi al direttore che quella era una squadra a fine ciclo e che serviva un rinnovamento. Per quanto riguarda quest’anno, faccio fatica a capire perché non siano riusciti a incidere. Il Giuntoli che conosco io è un direttore di altissimo livello, e il Bologna di Thiago Motta dello scorso anno era una squadra difficile da affrontare, con un’identità precisa e qualità di gioco. Ma l’ambiente Juve è complicato. Non so cosa sia successo di preciso, ma ammetto che un po’ mi ha sorpreso”.
Quanto ci vorrà per rivedere la Juve ai vertici?
“Le potenzialità per tornare protagonista ci sono già. E protagonista non vuol dire per forza vincere subito lo scudetto o una coppa europea, ma essere lì a giocarsela. E secondo me le basi per farlo ci sono”.
Oggi le panchine durano al massimo un anno. Ti sorprende? Ti preoccupa?
“Klopp disse in un’intervista di qualche anno fa: ‘Chi giudica un allenatore dopo una sola stagione non capisce niente di calcio’. Non so se avesse pienamente ragione, ma una bella fetta di verità c’era di sicuro”.
Ti incuriosisce di più un possibile ritorno di Allegri al Milan o il Napoli che sta agitando il mercato?
“Il Napoli, dopo la mia esperienza, ha capito che investire può portare risultati sportivi ma anche economici. Ai miei tempi lì, un acquisto da 18 milioni era considerato quasi proibitivo. Ora prendono giocatori di valore molto più alto, e i fatti gli stanno dando ragione. Hanno costruito una società solida, una squadra fortissima e, secondo me, nei prossimi due o tre anni partono nettamente favoriti per lo scudetto”.
Perché?
“Quella squadra era forte già prima. Non ha senso prendere come riferimento quel decimo posto, che è stata un’assurdità. L’anno precedente avevano vinto il campionato con tre mesi d’anticipo. Quella stagione negativa è stata un’eccezione, non la norma. E guardandoli da fuori, la sensazione è che questo dominio possa durare ancora due o tre anni”.
Possono dire la loro anche in Champions?
“Secondo me sì. Hanno qualità, forza, identità. Hanno tutto per essere competitivi anche in Europa”.
Un giudizio sull’ultima stagione del Milan?
“Giudicare da fuori non è mai semplice, ma la sensazione che ho avuto è che ci fossero giocatori forti, ma non una squadra forte”.
Mancava l’indirizzo?
“È difficile dire se mancasse davvero un indirizzo preciso, oppure se fossero semplicemente le caratteristiche di alcuni giocatori a entrare in conflitto con quelle di altri. Presi singolarmente, parliamo di calciatori forti. Ma guardando il complesso, la squadra lasciava qualche perplessità”.
Cosa pensi di chi dice che Modric è a fine corsa e di chi invece lo prenderebbe tutta la vita?
“Penso che il Paris Saint-Germain quest’anno abbia dato una lezione a tutti. Hanno smesso di costruire la solita squadra da figurine e hanno puntato su ragazzi giovani, motivati, pieni di talento. E con un gruppo che sembrava ridimensionato rispetto al passato, sono riusciti a vincere proprio dove avevano sempre fallito”.
Quindi secondo te oggi Luis Enrique è il miglior allenatore al mondo?
“La mia opinione personale è sì. In questo momento se la gioca con Guardiola, anche se quest’anno non è stato il migliore per lui, resta sempre Guardiola. Ma per come gioca il PSG e, soprattutto, per il coraggio nelle scelte che ha fatto, Luis Enrique mi ha conquistato”.
Però prendere 5 gol in finale – e parlo dell’Inter – ha fatto sembrare una partitella del giovedì…
“Se arrivi scarico, sia fisicamente che mentalmente, contro una squadra con certe qualità, e non sei dentro la partita al 100%, può succedere di perdere in modo pesante. È brutale, ma può succedere”.
Si è parlato molto di Fabregas…
“Cesc è un ragazzo di intelligenza straordinaria, ha conosciuto tanti allenatori e sa leggere il gioco. L’ho incontrato a Coverciano quando la sua squadra era terz’ultima. Gli ho detto di stare tranquillo, perché non solo si sarebbero salvati, ma avrebbero fatto bene. Secondo me diventerà un tecnico da grande club. Lo sta già dimostrando attraverso le sue idee. Ha ancora margini di crescita, soprattutto sulla fase difensiva, ma non ho dubbi: tra due o tre anni sarà su una panchina importante in Europa”.
Organizzazione sempre nei primi 30 metri?
“In Italia si sta facendo passare l’idea che il calcio vincente sia quello diretto, quello dove appena si può si lancia il pallone sul dischetto, anche a costo di una pallonata. Poi però guardo le grandi d’Europa a livello di Nazionale: Portogallo e Spagna, due squadre che fanno del palleggio la loro forza. Guardo la squadra che ha vinto la Champions: il PSG, anche quella una squadra di palleggio. E allora mi chiedo: ma cosa stanno guardando certi commentatori?”.
Quindi l’indirizzo da seguire è un altro?
“Se guardiamo chi sta ottenendo risultati oggi, sia tra le Nazionali che tra i club, direi che la direzione è abbastanza chiara”.
Si dimentica troppo spesso quanto curi la fase difensiva. Alla Lazio, nell’ultimo anno, non hai raccolto quello che avevi seminato…
“A Napoli mi sono divertito, è vero che non ho vinto, ma mi sono divertito. E credo che si siano divertiti anche i giocatori, e soprattutto il pubblico. Però, se devo fare un bilancio, penso di aver fatto due veri miracoli nella mia carriera: lo scudetto con la Juventus, che era una squadra arrivata alla fine di un ciclo, e il secondo posto con la Lazio”.
Più dell’Europa League vinta con il Chelsea?
“Quel Chelsea era una squadra forte, con le qualità giuste per vincere l’Europa League”.
E il secondo posto con il Napoli?
“Era una squadra fortissima, perfetta per il mio modo di giocare. Non abbiamo vinto per una serie di episodi sfortunati. Ma se guardiamo i numeri, nella storia della Serie A non è mai successo di arrivare secondi con 91 punti”.
Ci pensi spesso?
“Quello scudetto sarebbe stato la giusta chiusura di un ciclo bellissimo. Per me, per i giocatori, per il pubblico. Quella piccola insoddisfazione per non aver centrato il risultato finale rimarrà sempre. Ma è legata solo al risultato, perché per tutto il resto, a Napoli, mi sono trovato benissimo”.
Eppure c’è chi dice che se non vinci, la gente si dimentica…
“Non è così. Io posso ricordare squadre che non hanno vinto nulla e dimenticare chi ha alzato trofei. Se ti parlo degli anni ’70, chi ti viene in mente? L’Olanda. Non ha vinto niente. Quando ero a Napoli si parlava degli scudetti di Maradona, certo, ma in tanti mi raccontavano del Napoli di Vinicio. Quel Napoli lì non ha vinto, ma ha lasciato un segno”.
Troverai Gasperini alla Roma?
“Bello dai”.
Nove anni all’Atalanta, irripetibili?
“Da fuori la sensazione è che l’Atalanta sia una società forte, ben strutturata, solida. E per questo penso possa andare avanti anche senza Gasperini. Certo, la sua assenza si farà sentire, ma dopo nove o dieci anni – che in Italia è un’eternità per un allenatore – può anche arrivare il momento in cui senti che un ciclo è finito e che hai voglia di cominciare qualcosa di nuovo”.
Sai che ti chiederanno di mantenere quel rendimento nei derby?
“Sarà dura. Speriamo di riuscirci. È una partita che ti devasta. Nella mia carriera ho vissuto incontri di enorme importanza, ma il senso di spossatezza che provi dopo un derby… quello non l’avevo mai sentito prima”.
Quanto pesa, prima e dopo?
“Lo senti addosso per tutta la settimana, ma il vero peso arriva quando l’arbitro fischia la fine. Solo lì realizzi quanta pressione hai portato con te giorno dopo giorno”.
Il derby più bello?
“Ne abbiamo vinti quattro, pareggiato uno e perso uno. Il primo è stato indimenticabile: un 3-2 tiratissimo, pieno di colpi di scena. E poi c’è sempre l’emozione unica del primo derby vinto. Però ricordo bene anche quello perso: una sensazione devastante. Mi vergognavo perfino ad andare a Formello”.
Ma ne hai perso solo uno…
“Eh, ma quella settimana è stata tosta”.
E come l’hai vissuta?
“Non parlavo con nessuno. Né con i giocatori, né con lo staff, né con nessun altro. Nessuno”.
Ancelotti ha fatto bene ad accettare il Brasile?
“Se sia stata la scelta giusta o meno dipende solo da quello che sentiva lui in quel momento. Di certo, se avesse aspettato dieci giorni, sarebbe stato il nuovo allenatore dell’Italia. Quindi non so se alla fine sentirà più soddisfazione o un filo di rimpianto”.
Finalmente potrai allenare con la tua famosa settimana tipo…
“Ora lo dicono tutti. Ho persino letto un comunicato dell’associazione internazionale dei calciatori”.
Ma perché prima ti attaccavano tutti?
“Probabilmente perché stavo antipatico. Poi lo ha detto Klopp e tutti: ‘Klopp ha ragione’. Lo ha detto Guardiola e allora: ‘Eh, se lo dice Guardiola… forse si sta esagerando con i calendari’”.
Ti aiuta molto la settimana tipo?
“Sì, aiuta eccome. Ma ti manca anche la competizione europea. Tutti parlano dell’aspetto positivo – il tempo per lavorare – ma c’è anche quello negativo. E privare una squadra della Capitale di una coppa europea non è una cosa che mi faccia impazzire”.
Si può lavorare per tornarci?
“Speriamo, ma non sarà una passeggiata”.
Cosa ti verrà in mente la prima volta che tornerai allo Stadio Olimpico?
“Ah, pensavo a Formello. A Formello mi mancherà Olympia. Stava proprio nel giardino davanti alla mia stanza, la vedevo ogni giorno, più volte al giorno. Ora ho saputo che non c’è più. L’Olimpico? Spero di essere accolto bene da tutti. Sono tornato per amore nei confronti di questa gente, quindi spero che un po’ di quell’amore torni indietro”.