Spalletti come Bianchi e Bigon , lontani dalla retorica della napoletanità ma con una mentalità di ferro. Come 33 anni fa, lo scudetto si vince così. Perché?

Un lombardo (Bianchi), un veneto (Bigon), un toscano (Spalletti) sono gli allenatori che hanno vinto lo scudetto a Napoli. E due presidenti (Ferlaino e De Laurentiis) accomunati da una certificata antipatia, tutto sommato, irrilevante ai fini del risultato. Si dice che certe vittorie siano identitarie per un popolo peró si fatica a riconoscere negli artefici di questi successi quell’appartenenza che la retorica barocca ama spargere con generosità. La conferenza stampa di Spalletti dopo Udine sembrava un addio più che una celebrazione. Un gran canyon a separare l’entusiasmo per le strade di Napoli e il gelo della sala stampa friulana. Nemmeno Bianchi e Bigon fecero grandi capriole, ma Spalletti li ha battuti tutti. Eppure quella è professionalità che non c’entra nulla con l’interesse personale o la voglia di sorprendere. È importante capire. Spalletti ama il suo lavoro e lo svolgerebbe con identica dedizione in qualsiasi luogo. Spalletti parla di “tempo” quale elemento prezioso da dedicare a ciò che più ama: allenare. Lo ha spiegato con chiarezza. Spalletti è spigoloso, non si lascia andare. Quando sembra sorridere, azzanna. Il tempo è dedizione da togliere ad altro per compiere una missione e questo ha un peso che nessuna pacca sulla spalla o sorrisetto potrà mai rendere complice. Quando si guarda intorno non cerca alleati, ma persone con cui confrontarsi. I giocatori lo stimano perché sa insegnare senza ammiccare o lisciare nessuno. Non fa compromessi nemmeno con chi lo assume.

Basterebbero gli esempi di Roma e Inter, liete di disfarsi di lui pur avendo raggiunto ottimi traguardi. Dicono sia la schiena dritta, che solo il rispetto per ciò che si fa, può garantire. A De Laurentiis non concede sconti: “Il presidente deve parlare con me, non con voi giornalisti” ha detto riferendosi al futuro. Ma non è una sfida. Contro nessuno. Sono insegnamenti naturali che nascono dall’amore per il lavoro inteso come metodo di vita. Quando spiega ai ragazzi, che lo applaudono, di non saltare la scuola per il Napoli “altrimenti come faranno a capirlo” lancia un seme. Non parole vuote come “appartenenza” che non è requisito indelebile. Nascere in un luogo è origine (solo quella) di qualcosa che si può definire e completare ovunque con tutte le contaminazioni possibili. Hai bisogno dell’uomo di Certaldo, dell’imprenditore antipatico, dei giocatori che vengono dai posti più lontani per creare organizzazione, disciplina, qualità e competenza. Se l’identità è questa, ha un valore, se è solo la favoletta di un popolo baciato dal sole che si riversa per strada dopo 33 anni di attesa non c’è nulla di più lontano da questo Napoli. Si potranno versare lacrime e struggimenti poi si rientrerà nella normalità. E meno male ci siano voci dissonanti rispetto a concetti come “riscatto”. Riscatto di cosa se Napoli è città bellissima e ricca di cultura mai tanto piena di turisti come in questo periodo? Basta con i luoghi comuni e con concetti sfruttati solo per vendere qualche libro. Bisognerebbe andare a fondo su certi pensieri per comprendere dove finisce la retorica e dove inizia la serietà di un’impresa da sogno che può porre le basi per una mentalità diversa rimasta, questa sì, incontaminata rispetto al contesto. L’unica strada per vincere. Paradossalmente la stessa di 33 anni fa. Nulla è cambiato da allora. Per vincere c’è bisogno sempre di qualcuno che venga da lontano e conceda poco alla napoletanità. 

Paolo De Paola

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